Quantcast
Channel: La giusta distanza » lietta tornabuoni
Viewing all articles
Browse latest Browse all 2

Le difficili illusioni dell’era digitale

$
0
0

Internet, cinema e televisione hanno modificato informazione e intrattenimento. Per farci dimenticare la realtà o, forse, per farcela conoscere meglio.

Un nuovo libro svela i segreti della comunicazione del terzo millennio. “Oh, non ti fare illusioni, ritorna alla realtà”, dice scuotendo la testa Jean Gabin in “La grande illusione”, il film diretto da Jean Renoir nel 1937. Federico Di Chio, manager tv e studioso di comunicazione, con il suo nuovo libro, “La difficile illusione – Cinema e serie tv nell’età della disillusione”, (Bompiani) ha analizzato le dinamiche più segrete e impercettibili del cinema e della televisione. Anche grazie al supporto di alcuni registi del cinema italiano (Giuseppe Tornatore, Ettore Scola, Ferzan Ozpetek, Dario Argento, Gabriele Muccino) Di Chio ha cercato di spiegare a quale bisogno primordiale dell’uomo risponda l’offerta cine-televisiva che spinge ogni giorno centinaia di milioni di persone a pigiarsi davanti agli schermi in tutto il mondo. “Sia che ri-processi l’esperienza quotidiana (offrendo la possibilità di una retrospezione del proprio vissuto, attraverso quello degli altri); sia che la integri (garantendo accesso a nuove risorse potenziali di conoscenza e confronto); sia che la compensi (dando modo di bilanciare, di evadere), l’illusione contribuisce alla sua messa in forma, alla sua rifigurazione, al suo riscatto”, ha scritto Di Chio. Il nodo quindi è tutto nel rapporto, complesso e sofisticato, che le immagini della finzione hanno con la realtà della nostra vita quotidiana. Una relazione decisamente pericolosa.  Lo aveva scritto anche Edward Bernays, uno dei primi “spin doctor” (consulenti di immagine) della storia americana della prima metà del Novecento. Nella sua opera più famosa, “Propaganda”, pubblicata nel 1928, Bernays scrive che il cinema è “la più efficace cinghia di trasmissione della propaganda, un mezzo ineguagliabile per diffondere idee e opinioni. Ha il potere di uniformare i pensieri e le abitudini di tutta la nazione”. Anche in Russia, ai tempi della rivoluzione bolscevica, avevano le idee chiarissime sul potere delle immagini. Anatoly Vasilyevich Lunacharsky, commissario per l’istruzione e la cultura del potere sovietico ai tempi di Lenin, diceva che “la forza del cinema sta nel fatto che, come in ogni arte, infonde un’idea attraverso sentimenti e con una forma accattivante ma, a differenza delle altre arti, il cinema è a buon mercato e portatile. In effetti, riesce ad arrivare, dove nemmeno un libro può giungere, ed è ovviamente il più potente di qualsiasi altro mezzo di propaganda”. Insomma, è proprio vero: “La cinematografia è l’arma più forte”, come recitava il famoso slogan che Mussolini fece scolpire a caratteri cubitali sulla collinetta dove doveva nascere il più importante complesso di studi cinematografici dell’epoca, Cinecittà.  Ma come scatta allora quel meccanismo magico che lega lo spettatore all’immagine imbrigliandone la fantasia e condizionandone riflessioni e sentimenti?

La copertina del nuovo libro di Federico Di Chio

“Un antico apologo narra della sfida tra due leggendari pittori greci, Zeusi e Parrasio – ha scritto Di Chio -. Il primo dipinse dei chicchi d’uva così simili a quelli reali che degli uccellini tentarono di beccarli. Ma il secondo vinse la gara riuscendo ad ingannare il suo stesso avversario. Dipinse un drappo così “vero” che Zeusi esclamò: “E adesso fammi vedere tu che hai dipinto lì sotto!”. La morale della storia, per Lacan, è che per illudere un uccellino basta riprodurre l’apparenza delle cose, mentre per illudere un uomo è necessario “presentargli qualcosa al di là della quale egli domanda di vedere”. Ecco l’immagine mimetica funziona proprio così: restituisce le cose non tanto perché ne imita le sembianze, ma perché in fondo le nasconde e, dunque, le lascia immaginare”. “Vedi – ha detto il premio Oscar Giuseppe Tornatore a Di Chio -, credo che un film non sia e non debba essere solo ciò che si vede; ma che sia più attraente e misterioso, e quindi avvincente e interessante per lo spettatore, laddove con le immagini e con le azioni mostrate, sottointenda altro. E’ il sottointendere che rende un film più attraente”. “Il reale è un sentimento che non appartiene di per sé alla realtà; ma appartiene a chi lo sa cogliere e poi esprimere – ha commentato l’altro premio Oscar, Bernardo Bertolucci -. A riguardo, mi infastidisce molto il tentativo di molti film oggigiorno di essere realisti, ma non reali. Non c’è credibilità”. Un paradosso intorno al quale ruotava anche uno degli ultimi articoli di Lietta Tornabuoni, il critico cinematografico de La Stampa. “E’ una tendenza già notata altrove, molto interessante e insieme piuttosto allarmante: il successo dei film-realtà, dei documentari, il distacco già visto dal cinema narrativo, di sentimenti, di emozioni. I film ispirati ai romanzi d’immaginazione sono durati per tanto tempo, quasi un secolo: non stupisce che siano passati in secondo piano, nelle società occidentali fattesi sempre più concrete (e incolte). L’influenza documental-cronistica della televisione, che trasmette soprattutto notizie e documentari ai suoi spettatori più accaniti, non può non farsi sentire, a lungo andare. L’indicazione «ispirato a una storia vera» diventa sempre meglio accolta e dominante, man mano che l’incultura lascia pensare che autenticità non sia l’intuizione di pulsioni profonde, ma la riproduzione precisa di esperienze quotidiane. L’imitazione anglosassone, soprattutto inglese, che predilige i racconti-verità, è quasi fatale. Il fenomeno si presenta legato alla superficialità, all’ignoranza, alla mancanza d’abitudine a leggere: si capisce che è facile come un pettegolezzo ascoltare o raccontare una storia realmente accaduta, più facile che comprendere e apprezzare un romanzo di Dostoevskij o di Conrad. Da un punto di vista culturale, si tratta certamente di una perdita. Da un punto di vista cinematografico, chissà”. “L’illusione ha cambiato progressivamente forme, adattandosi allo spirito dei tempi – ha scritto Di Chio nel capitolo intitolato “Qualcosa è cambiato” -. L’illusione che abbiamo definito classica era ben inserita nel tessuto culturale della modernità. L’illusione contemporanea, di contro, si è via via incardinata nel tessuto culturale della cosiddetta post-modernità. Da esso mutua la concezione dell’esperienza come percorso esplorativo, tattico, reversibile; e l’idea dell’uomo come soggetto in perenne crisi, pressato fra l’obbligo di fare delle scelte e l’ansia di non poter contare su riferimenti consolidati”. Pieno di spunti inediti, segreti di “bottega” del mondo delle immagini e di indagini approfondite sulle reali motivazioni delle scelte di registi e autori, il libro di Di Chio porta lontano il lettore, fino a fargli toccare  (o a dargli l’illusione di poter sfiorare) “la materia di cui sono fatti i segni (non i sogni) della modernità”. Come dice il regista slavo Abbas Kiarostami: “Che sia fattuale o finzionale, il cinema è sempre una grande menzogna; e la nostra arte consiste nel dirla in modo che la si creda”. Ma come diceva Gabin: “Oh, non ti fare illusioni, ritorna alla realtà”.


Archiviato in:cultura Tagged: Bernardo Bertolucci, Edward Bernays, Ettore Scola, Federico di chio, francesco casetti, Gabriele Muccino, Giuseppe Tornatore, Jean Gabin, lietta tornabuoni

Viewing all articles
Browse latest Browse all 2

Latest Images

Trending Articles